Avere la fibrosi cistica e diventare mamma

Avere la fibrosi cistica e diventare mamma

Come cominciare? Scrivere di maternità legata alla Fibrosi Cistica… Devo dire che non so da dove iniziare. 

Andiamo per gradi. Mi chiamo Valeria e quest’anno compirò 36 anni, anche se mio figlio Marco, alla veneranda età di 9 anni, mi reputa molto più anziana. A suo dire sembro la nonna (e vorrei ben vedere a dover avere a che fare con un ciclone come lui, h24, 7 giorni su 7).  Scoprire di diventare mamma è stata una gioia mista a tanta paura. Mio marito, allora compagno, ha accolto la notizia come se avessimo vinto alla lotteria. Quello che ciò davvero ha sorpreso e spiazzato entrambi è la gioia che ha portato nel nostro reparto. Non sarei diventata mamma solo io, ma nostro figlio sarebbe stato un po’ il figlio di tutti quelli che con me hanno combattuto e che mi sono stati accanto in ogni momento della vita. E’ stata una piccola vittoria dopo anni di battaglie.

Fino ai sette mesi di gravidanza sono riuscita ad andare in palestra, ed avrei anche continuato se il ginecologo, guardandomi come se fossi una pazza senza capacità di intendere e volere, non mi avesse intimato di smetterla perché altrimenti avrei partorito sul tapis roulant. A 8 mesi mi sono spiaggiata come un’orca, e l’unico sforzo che facevo era di alzarmi dal letto per fare pipì oppure aumentare la velocità del ventilatore per combattere il caldo. Ma il fev1 non è mai calato drasticamente, e mio marito non è mai scappato a comprare le sigarette senza fare ritorno, anche perché non fuma. Ancora una volta VALERIA 1 – FC 0.

Nove mesi sembrano molti, ma in realtà passano in un soffio, così il fatidico giorno che sembrava non arrivare mai, è arrivato. Il piccolo miracolo pesava 2,700 kg di felicità. Da quel giorno, il dottor Bella è stato il nostro punto fermo. Senza il suo pragmatismo, non avremmo mai potuto affrontare il resto della storia con serenità. E’ stato e sarà sempre la voce fuori campo capace di dissipare le nuvole nere che si palesano all’orizzonte. Subito dopo il cesareo, nemmeno il tempo di pensare, che avevo al braccio la prima terapia endovena. 

Quindi il primo problema. Il bimbo non può essere allattato al seno. Panico. Interviene una suora, veterana del Fatebenefratelli di Roma, che dall’alto della sua saggezza mi dice di attaccare il bimbo al seno, prima che l’antibiotico entrasse in circolo. Tempo due ore ed il latte era lì. Ottimo, la latteria era aperta, ma dal secondo giorno di antibiotico, inutilizzabile. Soluzione pratica: tirare il latte e pregare che non andasse via. 15 giorni di tiralatte, poppate notturne, diurne e tanto sonno. 

No, non è stato facile. Però i 15 giorni sono passati, la latteria ha riaperto i battenti, ed è stato tutto più semplice. Il sonno però è rimasto. I rimproveri dei dottori pure. La FC ha cercato di insinuarsi, ma l’antibiotico ha sortito il suo effetto.

Da qui il combattimento quotidiano è stato quello di cercare di condurre una vita il più normale possibile per non far pesare il mio problema di salute sul nostro bambino e sulla nostra famiglia. Ma in realtà tutto questo non è possibile da soli. Deve essere un gioco di squadra, a volte è difficile perché dopo una giornata tra lavoro e giochi e capricci noi veniamo per ultimi e le terapie sarebbero l’ultima cosa che vorremmo fare, e molte volte le saltiamo a piedi pari. Così facendo non ne traiamo alcun vantaggio. Ma è una cosa che si capisce nel tempo. Avere un bambino mette una patina sui nostri occhi e i dottori fanno di tutto per dissiparla, combattendo molte volte contro la nostra testardaggine. Da parte mia, con il supporto fondamentale di mio marito, ho sempre fatto in modo che tutto fosse il più naturale possibile, trattiamo la fibrosi come una qualsiasi caratteristica individuale, che ci differenzia ma che non ci svantaggia. Certo è stato difficile andare ai ricoveri e lasciarlo a casa, anche solo per due o tre giorni. Ma ripeto, dietro ogni gesto deve esserci gioco di squadra. Trovare il tempo per se stessi, parlare e comunicare il proprio disagio o le proprie necessità sono la malta che tiene in piedi una situazione del genere. Non è facile e non è immediato, ma prima o poi tutti trovano il proprio equilibrio, così come è successo a noi. Per mio figlio non è mai stato un trauma guardarmi mentre facevo le solite terapie e non lo è tuttora, a quasi dieci anni di distanza. I miei ricoveri non si sono mai messi tra noi, ci siamo ingegnati per diminuire le distanze in ogni modo, dalle videochiamate alle favole al telefono, la sua quotidianità non è mai cambiata, tra i nostri mille salti mortali, ma gli adulti hanno questo compito e tutti i mezzi per portarlo a termine.

Quando nostro figlio mi ha chiesto per la prima volta dove andassi, e perché dovessi fare tutte quelle terapie, la mia risposta è stata d’istinto: “Per stare bene, tesoro e per ridere insieme.”. Tutti noi sappiamo quanto è difficile ridere con la FC e tutti noi sappiamo che dietro a queste parole c’è un mondo tanto di sofferenza quanto di soddisfazioni. La maternità ci fa capire l’importanza delle nostre azioni quotidiane, più o meno semplici. Non saremo mai più soli. Sergio Bella mi dice sempre di non mollare, di non lasciare nulla al caso, e di farlo per Marco, per mio figlio che merita solo il meglio di me stessa. 

La fibrosi cistica è stata e sarà lo sfondo della nostra vita, e anche nella maternità non fa eccezione. Non possiamo ancora combatterla in modo definitivo, ma non dobbiamo lasciarci sopraffare dalle paure o dai dubbi che comporta. Quello che dobbiamo fare è lasciarla nello sfondo e non perdere di vista l’obiettivo: stare bene noi e far star bene la nostra famiglia. 

Di Valeria Nicoli

Condividi Questo Post: