Eliana, paziente FC e medico specializzando in psichiatria: le aspettative dei pazienti
Mi presento: sono Eliana Conte, sono un medico specializzando in psichiatria e sono in cura in questo ospedale da almeno 28 anni perché affetta da fibrosi cistica (mutazione delta f 508 omozigote).
La premessa, doverosa, che vorrei fare, riguarda innanzitutto il mio ruolo oggi: sono stata chiamata in quanto paziente e, di conseguenza, in quanto rappresentante di questa categoria. Un compito arduo, proprio perché ciascuno è paziente a modo suo e questa patologia del respiro (e non solo), così pervasiva in ogni atto quotidiano, si declina in maniera diversa a seconda della diversa persona che incontra. E con questo non mi riferisco solo all’enorme variabilità genotipica e, secondariamente, fenotipica della fibrosi cistica, ma mi riferisco proprio alla moltitudine di modi in cui questa patologia può essere vissuta. Proprio perché, prima che essere pazienti, siamo persone e, come tali, abbiamo i nostri connotati psicologici assestanti. C’è chi della fibrosi cistica fa una battaglia di vita, chi la scotomizza, chi la nega, chi riempie l’angoscia con mille altri impegni, chi la sfida dovendo sempre oltrepassare il limite, chi la sbeffeggia, chi la nasconde agli altri. E, sebbene tecnicamente siano tutte difese, non esiste una maniera più giusta di un’altra per difendersi. Ognuno conosce la sua maniera. Tutta questa premessa per dire che, anche riguardo al tema di cui parlerò, applicherò sempre il mio parametro interno, derivato dal mio modo di essere paziente. Sperando che, almeno in parte, possa risuonare a qualcuno.
Mi è stato chiesto di parlare di aspettative e, per l’occasione, cercherò di servirmi di entrambi gli strumenti che la vita mi ha messo a disposizione: quello di paziente e quello di medico, psichiatra, che ha scelto di occupare gran parte del suo tempo con lucubrazioni autoriflessive e introspettive. Dico questo proprio perché l’aspettativa è, di per sé, una parola il cui valore intrinseco è insidioso: cammina sul bordo sottile di una medaglia le cui due facce sono quelle della speranza, da una parte, e dell’illusione dall’altra. Entrambi sono aspetti direi costitutivi nella mente della persona affetta da fibrosi cistica: l’aspettativa verso le nuove cure, il pensiero di poter vivere un’età adulta è un lusso che troppo spesso non possiamo permetterci. La disillusione è una pillola davvero molto amara, forse la più difficile da mandare giù tra le tante che dobbiamo assumere ogni giorno. Non solo: spesso ci troviamo a sostenere anche l’aspettativa delle persone che ci sono più vicine che si sentono impotenti e che, per spinta contropolare, si prodigano in qualsiasi tipo di aiuto, si caricano sulle spalle battaglie pesantissime. Ed è proprio questo però, il motore che muove l’aspettativa verso l’altra faccia della medaglia, quella su cui oggi volevo porre l’accento. La speranza che qualcosa possa cambiare. Basta guardarci intorno oggi per capire quanto la speranza abbia forgiato i combattenti di questa dura battaglia: le associazioni sono nate dall’amore delle persone che sono vicine a questa patologia, da chi la vive in prima persona e chi la vive di riflesso, da chi se ne prende cura affettivamente e chi professionalmente. Il bisogno di poter fare qualcosa per cambiare le cose, la necessità di prendere parte a questa lotta ha portato a risultati davvero inimmaginabili. La storia di questa associazione la dice lunga. L’assistenza, il supporto, l’aiuto che ha dato e che continua a dare alle persone affette da FC è immenso.
Ma l’aspettativa del paziente non è solo quella di trovare la cura definitiva bensì, in maniera molto più contingente, risolvere la difficoltà quotidiana legata ad una patologia cronica che per tanti (anche medici) è misconosciuta: di cosa sto parlando? Delle difficoltà che, per esempio, può avere un bambino (o un ragazzo) nell’ottenere un certificato di attività sportiva (agonistica e non), della frustrazione di vedersi rifiutato peiché, per un medico poco avvezzo alla materia, una patologia respiratoria così importante non può conciliarsi con uno sforzo aerobico sostenuto. In questo sono di cruciale importanza una struttura di riferimento ultraspecialistica e un’associazione che conosca nel minimo dettaglio le problematicità quotidiane. Vi porto un esempio molto più personale. Da ormai alcuni anni (da quando ho introdotto nella mia terapia quotidiana anche l’insulina) il rinnovo della patente è diventato un calvario senza fine. Questo perché, in maniera incauta ma sopratttutto ingenua, ho dichiarato, al momento della visita medica, di avere una patologia genetica (per poi scoprire, anni dopo, di essere stata pressocchè l’unica ad essere stata sincera). Questo ha portato negli anni a rinnovi quinquennali o annuali (cosa, tra l’altro, non per forza prevista in una condizione di stabilità clinica). A nulla è servito il presentarmi davanti alla commissione medico legale come una collega per spiegare che la mia condizione di diabete era più che controllata. In quella visita così automatica anche i protocolli sono automatici: il medico che non ti ha mai vista prima e che mai più ti vedrà trova molto più comodo e meno rischioso catalogarti come un diabete tipo 1 e rimandarti al prossimo controllo, ovviamente tra 1 anno, come previsto nelle forme di diabete scompensato. Così, un paio di mesi fa, durante una normale visita di day hospital, mi sono sfogata di come tutto, per noi pazienti FC, dovesse diventare così farraginoso. È stato lì che mi è stato proposto, dai medici che mi seguono, di rivolgermi ad Officium, poiché lì avrei potuto rivolgermi al medico legale dell’associazione. Sono sincera, è stata una novità per me, sia l’associazione, sia quello che ne conseguiva: ammettere di poter chiedere l’aiuto di qualcuno.
Come mi sono sentita? Mi sono sentita meno sola. È fondamentale sapere che qualcuno sta pensando a te, che qualcuno sta lottando insieme a te. Il dolore va condiviso, e sarà più lieve. È stata questa la grande funzione dell’Associazione e dell’Ospedale che mi ha sempre seguita: avermi potuto rendere la vita più semplice. Questa è l’aspettativa SANA che noi tutti pazienti dovremmo pretendere. Non essere lasciati soli.
Parlando di grandi battaglie vinte, la ricerca ha reso pensabile ciò che fino a non molti anni fa era impensabile: considerare la fibrosi cistica come una malattia dell’adulto.
Il mio pensiero va soprattutto a quei genitori che oggi riceveranno la notizia della diagnosi del proprio figlio e potranno pensarlo adulto. E subito ripercorro l’angoscia (raccontata) dei miei genitori nel momento in cui è stata chiara la mia diagnosi, nell’epoca in cui la fibrosi cistica era solo una malattia pediatrica. Mia madre che, parlando al telefono con mio padre dopo un anno di sospetti clinici di malassorbimento e ridotta curva di crescita, gli dice: “Ma perché quando bacio nostra figlia sa di sale?”. E il terrore negli occhi di mio padre, medico, per quell’ineluttabile e inequivocabile diagnosi istantanea, che si presentava più chiara di ogni analisi genetica.
“Sfortunato è il bambino che, baciandolo, sa di sale”. Così recita un antico testo di medicina cinese. Sfortunato, specifica, perché non avrebbe mai raggiunto l’età adulta. E questo è stato il destino della patologia dall’antichità fino a quasi una trentina di anni fa, con la tipizzazione del gene CFTR. Quel maledetto gene la cui individuazione ha dato però l’avvio ad una serie di contromisure per combatterlo.
Durante la mia prima visita nel Centro FC di Verona, il medico disse ai miei genitori: “Tutto sommato, siete stati fortunati: è stato da pochi mesi scoperto il gene responsabile, sarà l’inizio di una nuova era”. E anche qui, la grande nominata di oggi: l’aspettativa. Non solo mia, ma soprattutto di chi mi stava accanto e sentiva il peso e la responsabilità di avermi trasmesso un gene difettoso. Anzi, due.
Sono passati 28 anni da quel ricovero e, sebbene non si sia ancora arrivati a trovare la bacchetta magica per la fibrosi cistica, sono notevolmente cambiate le prospettive e, di conseguenza, le aspettative. Adesso il paziente FC può immaginare aspettative da adulto. Per carità, con tutte le sue problematicità: parlando personalmente, ho dovuto pian piano ristrutturare la mia esistenza in funzione del fatto che sarei cresciuta, che avrei dovuto affrontare e sopportare il peso dei dolori cui la vita sottopone al di fuori della patologia. Dopo una lunga riflessione personale, mi sono convinta del fatto che il paziente cronico e, in particolare, quello affetto da FC, soffra un po’ della Sindrome di Peter Pan: a fronte di un fin troppo precoce sviluppo psichico (perché costretto dalla malattia a riflettere su temi nucleari come la sofferenza, il senso della vita e la morte), si accosta l’incapacità di vedersi adulti…o meglio, si incista il desiderio di rimanere per sempre bambini.
Me lo sono spiegata, prima di tutto, in termini pratici: il bambino non ha ancora un polmone così compromesso, respira bene, tossisce poco la notte. L’ampolla dell’aerosol al bambino la lavano i genitori, i farmaci alla Asl li ritirano i genitori, le visite le fa coi genitori. Insomma, ci è più comodo pensare che si possa fermare il tempo e rimanere sempre in questo stato di grazia, dove tutto è più semplice, senza che le condizioni possano evolvere e degenerare, prima che il polmone si riempia di bronchiectasie e di batteri multiresistenti, che le vene si sclerotizzino costringendo a cateteri centrali, senza dover essere noi, nella nostra individualità e quindi “adultezza”, a dover prendere in mano una situazione gravosa che si ripercuote nel quotidiano: prendere i farmaci, fare interminabili file alla Asl, al Centro Protesi, al Caf per la questione pensionistica, mantenere in casa norme igieniche decisamente al di sopra della norma ecc.
Questo percorso ad ostacoli viene ulteriormente gravato dal dover incastrare il lavoro e ritagliarsi lo spazio all’interno della propria vita adulta, quella al di fuori della patologia (la casa, la famiglia ecc…). Insomma: non è facile diventare adulti per noi pazienti FC. È un onore, ma anche un onere.
E proprio per questo, a maggior ragione, il centro che si occupa dell’adulto ha una responsabilità doppia, perché si occupa di persone sempre più complesse: sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista psichico.
Così ho buttato giù una sorta di “lista di Babbo Natale” (sperando di aver messo anche cose tutto sommato scontate), indirizzata ad un Centro X che si occuperà dell’adulto FC:
Vorrei dei medici disponibili e presenti. Disponibili a parlare e riparlare con i pazienti, laddove la visita non si concluda con la valutazione dei sintomi e la conseguente prescrizione farmacologica. Il paziente deve anche poter avere lo spazio per raccontare l’angoscia legata a quel sintomo e, il medico, deve avere lo spazio per poter accogliere quell’angoscia.
Vorrei che si avesse un rapporto diretto con il medico, e non (almeno, non sempre) mediato dallo specializzando. Perché lo specializzando spesso è bravo, motivatissimo, ma è pur sempre una figura in fieri e sta imparando su un campo di battaglia sicuramente insidioso (dico questo alla luce del fatto che anche io sono una specializzanda e so che spesso, ma non sempre, la gestione del reparto è largamente lasciata a noi).
Vorrei che lo specialista che si occupa del sintomo sia preparato, oltre che sul sintomo in sé, su quanto questo possa essere diverso nella fibrosi cistica. Perché questa malattia declina in maniera del tutto singolare il sintomo, fino a trasformarlo, talvolta, in qualcosa di molto lontano da quello che viene descritto sui testi.
Vorrei un centro che si occupi senza paura e con un’organizzazione adeguata e multidisciplinare, della questione riproduttiva nei pazienti FC. Terreno che, nella pediatria, chiaramente risulta essere poco esplorato ma che diventa una necessità, oltre che un diritto, nel paziente adulto.
Ragion per cui l’equipe medica che si occuperà di questo aspetto dovrà poter dare delle risposte concrete sui centri disponibili per la fecondazione assistita (qualora ce ne sia la necessità). La ginecologia dovrà essere pronta ad accogliere le paure e le angosce di una gravidanza a rischio. Dovrà essere preparata su quale possa essere il compromesso più accettabile tra farmaci non teratogenici ma che siano ugualmente efficaci su batteri così resistenti. Il nutrizionista dovrà essere pronto a somministrare una dieta che cammini sulla linea sottile che divide la necessità di un BMI adeguato alla necessità di una pancia che non cresca eccessivamente in dimensioni per non deprimere troppo l’attività respiratoria. Il diabetologo dovrà essere preparato ad adattare la terapia insulinica costantemente per evitare il diabete gestazionale. E tutto questo avrà bisogno di un medico coordinatore che non perda di vista nessuno di questi aspetti.
E, dulcis in fundo, vorrei un Centro che punti sulla ricerca e sulle avanguardie (farmacologiche e non) che la scienza mondiale mette a disposizione per questa patologia: ogni paziente candidabile deve poter usufruire dei trial clinici più promettenti.
Dedicato a chi ci ama, non nonostante i nostri difetti, ma per i nostri difetti.